MusaMadre 2025 / Alterità
"il Festival non è solo una rassegna di eventi, ma un atto poetico: un tentativo di resistenza alla banalizzazione, uno spazio in cui l’alterità possa tornare a essere ricchezza e non minaccia, incontro e non mercato, consapevolezza e non consumo."
Siamo in grado di riconoscere e valorizzare ciò che è diverso da noi? È questa la domanda che negli ultimi anni mi sono posta più volte, vedendo quanto il mondo che mi circonda sia diverso dal mondo che vorrei. Oramai siamo sempre più portati a costruire reti solidali tra persone e situazioni che ci appartengono, che rispecchiano il nostro pensiero e le nostre aspettative. Viviamo indubbiamente un tempo in cui le società tendono a chiudersi in identità rigide e contrapposte. Il mio desiderio è aprire uno spazio di dialogo, confronto e ascolto, dove la diversità diventa occasione di crescita collettiva e di trasformazione.
Il desiderio di andare controtendenza quando la tendenza è non riconoscersi nell’altro e di fatto costruire sempre più “altri” che rassomigliano nel paradosso a ciò che pensiamo non ci appartenga. Dove stiamo andando? Forse verso un futuro in cui l’alterità non sarà più percepita come distanza, ma come specchio. Guardare l’altro significa guardare noi stessi con occhi diversi, lasciarci destabilizzare e trasformare. È in questo spazio fragile, di sospensione e apertura, che può nascere una comunità capace di accogliere e non respingere, di interrogarsi invece che giudicare.
Vorrei allora sostituire la parola identità con alterità. Identità ci rinchiude, ci delimita, ci obbliga a difendere confini reali o immaginari; alterità invece ci apre, ci espone, ci invita a varcare soglie. È nell’alterità che possiamo davvero incontrare l’altro, senza ridurlo a specchio di noi stessi né a minaccia. Il desiderio è quello di imparare a capire e farsi capire da chi è diverso, senza pretendere che la differenza si annulli, ma anzi accogliendola come risorsa.
Eppure i conflitti iniziano proprio da vicino, dentro le nostre famiglie, nei rapporti più intimi, nei gesti quotidiani che dovrebbero essere cura e diventano lotta di potere. Le guerre non sono altro che la proiezione di questa dinamica: la dimostrazione del più forte, la violenza del più potente che si impone sul più fragile. E in questa logica non esiste il buono o il cattivo, perché a pagare le conseguenze sono sempre le vite innocenti, travolte da giochi di potere che non appartengono loro.
Allo stesso modo, le arti, che dovrebbero essere strumenti di libertà, sempre più spesso diventano merce; e gli artisti, invece di dedicare la vita ad affinare il proprio talento, si preoccupano di rincorrere successo e fama, svuotando la loro stessa vocazione. Le culture, anziché essere patrimonio condiviso, vengono svendute al miglior offerente, ridotte a folklore o prodotto da consumare. E il pubblico diventa utenza, che si muove come un gregge, inseguendo ciò che viene imposto senza fermarsi a interrogarsi sul valore dei passi che calpesta, senza riconoscere la profondità dei segni che porta con sé ogni gesto culturale.
Per questo il Festival non è solo una rassegna di eventi, ma un atto poetico: un tentativo di resistenza alla banalizzazione, uno spazio in cui l’alterità possa tornare a essere ricchezza e non minaccia, incontro e non mercato, consapevolezza e non consumo.
Desiderare la pace significa agire per la pace, ciascuno a suo modo. Ma io mi sentirei a disagio se le mie azioni si fermassero davanti a chi è al mio opposto. Non è forse questa l’unica possibilità perché si compia la pace?
Valeria Orani